BOILER #4
Ciò che bolle in pentola, ovvero… news, note, interventi, segnalazioni, anticipazioni, articoli, canzoni, podcast, video, saggi inediti… di tutto e di più.
Ciao!
Eccoci al quarto numero di questa newsletter. Ottobre 2023, dedicato nella parte “open” a un'anticipazione del mio saggio di prossima uscita IL MITO DI TARZAN TRA LETTERATURA, CINEMA E FUMETTO (Allagalla, Torino 2023).
Per i lettori a pagamento, un nuovo capitolo del mio studio La biblioteca dei bestsellers dimenticati, dedicato a George William MacArthur Reynolds popolare autore inglese di feuilleton, amico e corrispondente di Alessandro Manzoni, e al suo romanzo antimilitarista THE SOLDIER'S WIFE.
Vi consiglio di leggere BOILER nel vostro browser perché, per via della lunghezza, l’email potrebbe venire tagliata.
Il mese prossimo uscirà un numero speciale della newsletter per festeggiare il mio 75° compleanno e posterò nella parte su abbonamento dei miei brani musicali inediti del 1978 che sto attualmente digitalizzando.
Buona lettura!
Gianfranco
(Allagalla, Torino 2023)
WELCOME TO THE JUNGLE
La fondazione di un nuovo genere d’Avventura.
L’autore
Edgar Rice Burroughs (1875-1950), nato a Chicago, debutta sulla rivista «All-Story Magazine» nel 1912 con Under the Moons of Mars, poi trasposto in romanzo con il titolo A Princess of Mars. Il protagonista, John Carter, è un soldato confederato implicato in un conflitto con gli apache, che per sfuggire ai nemici ripara in una grotta sacra dalla quale si ritrova magicamente trasportato su Marte, che i suoi abitanti chiamano Barsoom. Sul Pianeta Rosso, grazie alla minore forza di gravità, Carter con un solo balzo può volare per miglia. Sviluppa anche facoltà telepatiche. Ai marziani appare dunque come un semi-dio. John Carter è da un lato il primo space cowboy, dall’altro l’anticipatore della figura del super-eroe. Superman, che debutta nel 1938, è un John Carter a rovescio, un alieno dotato di superpoteri sulla Terra, così come l’eroe di Burroughs su Marte. Il successo della pubblicazione conduce a un ciclo di undici romanzi, e si intreccia con un successo ancor più vistoso e duraturo: quello di Tarzan. Burroughs comincia a lavorare al suo Tarzan nel 1911, in parallelo con le avventure di Carter.
A differenza del ciclo di Barsoom, quello di Tarzan è quasi da subito multimediale. Burroughs vende i diritti di Tarzan of the Apes nel 1912 alla stessa rivista che ha pubblicato Under the Moons of Mars, per settecento dollari (circa 20.000 di oggi), con un incremento notevole rispetto al primo lavoro (pagato quattrocento dollari). La versione romanzo viene pubblicata nel 1914 ed è acquistata l’anno successivo ad Hollywood per la trasposizione cinematografica. La preparazione è laboriosa e caratterizzata da continui dissidi tra l’autore e i produttori e da ostacoli oggettivi dovuti al periodo bellico. Fatto sta che il film (muto) esce nel 1918. Nonostante i dissidi sopra accennati, tra tutti i film di Tarzan è il più fedele al romanzo, anche se il finale (come vedremo) è diverso. Il personaggio viene interpretato da Elmo Lincoln e, per il Tarzan ragazzo, da Gordon Griffith. Burroughs guadagna per la cessione dei diritti cinematografici una cifra dieci volte superiore al consueto (5000 dollari contro i normali 500), cui vanno aggiunte le percentuali, per un guadagno globale gonfiato dallo straordinario successo al box office.
La prima comic strip giornaliera di Tarzan esce nel 1929, per United Feature Syndacate, sezione della Scripps Company. La rivale King Features, del gruppo Hearst, cerca di acquisire i diritti di John Carter, ma non riesce a ottenerli da Burroughs, dunque si affida ad Alex Raymond per creare un nuovo personaggio. Nasce così Flash Gordon, pubblicato a partire dal gennaio 1934, e abbinato a Jungle Jim che verrà interpretato sullo schermo dallo stesso attore che renderà definitiva la fama di Tarzan, cioè Johnny Weissmuller. Il primo radio show di Tarzan vede la luce nel 1932. Tre anni dopo esordiscono in radio le avventure di Jungle Jim.
Nel 1919 Burroughs aveva investito i proventi della sua attività nell’acquisto di una tenuta di seicento acri nell’area di Los Angeles, da lui battezzata Tarzana Ranch, che a partire dall’anno successivo aveva dotato di garage, uffici e studio privato, un’abitazione per i domestici, un teatro-sala da ballo e piscina. Nel 1923 Burroughs divide la sua proprietà in lotti edificabili e li pone in vendita. Sulla brochure promozionale il luogo (Tarzana Tract) viene così presentato:
Scelto da Edgar Rice Burroughs, autore delle storie di Tarzan e di The Girl from Hollywood, Tarzana è l’orgoglio della bellissima San Fernando Valley. Tarzana sarà fornita di ogni risorsa atta a una residenza ideale. Posizione elevata, acqua, gas, elettricità, strade lastricate, ecc. Tarzana vi offre alloggi, ampi spazi verdi, in una cornice tranquilla e confortevole. È immersa nella natura, in lotti che includono ogni miglioria nel prezzo, con scuole adeguate, chiese e teatri, è il posto in cui vivere. Sapete che potete comprare uno di questi spazi per 1500 dollari, cioè al prezzo di un lotto urbano in un quartiere povero? Perché esitare? Venite a vedere Tarzana.
Il nome Tarzana viene ufficialmente accettato dalle poste alla fine del 1930. La popolazione è di trecento abitanti. Cresce lentamente e dopo la Seconda guerra mondiale l’insediamento suburbano si amplia. Conta oggi circa 24.000 residenti. La residenza di Burroughs giace abbandonata e in rovina. Tarzana non è un parco di divertimenti come Disneyland (che apre nel 1955) e non è intitolata all’autore-creatore, ma al suo personaggio. Tuttavia nasce nella seduzione di un sogno. Il mito della giungla si realizza sotto forma di borgo residenziale, dotato di adeguati servizi e immerso nella natura. Una piccola utopia realizzata a vantaggio del ceto medio alto.
Le fonti
In Something of Myself (autobiografia pubblicata postuma nel 1937) Rudyard Kipling scrive:
I miei Libri della Giungla ebbero zoo di [imitatori]. Ma il genio di tutti i geni fu colui che scrisse una serie chiamata Tarzan of the Apes. L’ho letta, ma mi dispiace di non averla mai vista al cinema, dove ha avuto un successo più clamoroso. Aveva “jazzato” il tema dei Libri della Giungla e, immagino, si era divertito moltissimo. Si riferì che avesse detto che intendeva scoprire quanto fosse capace di scrivere male, sperando di “farla franca”, che è un’ambizione legittima.
Nello stesso testo, Kipling rende omaggio a uno scrittore più che riconosciuto, l’inglese Henry Rider Haggard, re indiscusso delle classifiche di vendita e apprezzatissimo dalla critica, autore di King Solomon’s Mines (1885), di She (1886) e di molte altre avventure africane. Kipling lo aveva conosciuto personalmente, diventandone amico, e così ne parla:
Non c’era mai stato un narratore, o, per me, un uomo con un’immaginazione più persuasiva.
Kipling ammise d’aver tratto ispirazione per il personaggio di Mowgli da un passaggio del romanzo di Haggard Nada the Lily (1892). Questo romanzo, ambientato tra gli zulu, non è soltanto un romanzo d’avventura, ma un romance, cioè una storia d’amore. I Libri della Giungla (il primo del 1894, il secondo del 1895) non contengono storie d’amore, mentre la commistione tra avventura e romance è caratteristica distintiva di Tarzan of the Apes. Haggard è dunque in qualche modo una comune radice tra Kipling e Burroughs. Quest’ultimo del resto ammise:
Verso il signor Kipling e il signor Haggard ho un debito di riconoscenza per aver stimolato la mia immaginazione giovanile e questo lo riconosco, mentre non ho mai letto il signor Wells e dunque le sue storie di Marte non possono avermi influenzato in alcun modo.
Riguardo a Mowgli aggiunge:
Il tipo di Mowgli è assai più antico di Kipling. Più antico di quanto non sembri. Forse tanto quanto i primi tentativi di linguaggio scritto. Lo si ritrova nei miti e nelle leggende di molti popoli, la più famosa, forse, è quella di Romolo e Remo, che stimolò la mia immaginazione assai prima di Mowgli.
Mowgli infatti, un piccolo indiano (in origine Nathoo), sottratto alla sua famiglia dalla tigre Shere Khan, viene allattato da una lupa, soprannominato Mowgli, cioè Ranocchietto, e dai lupi allevato. Tarzan invece viene rapito, nella baracca dei suoi genitori inglesi defunti, da scimmie non meglio identificate, probabilmente gorilla, ma non proprio corrispondenti, essendo i gorilla erbivori, mentre gli scimmioni del romanzo risultano carnivori. La sua madre adottiva, Kala, lo battezza Tar-zan che nel linguaggio della Giungla significa Pelle Bianca. Mowgli è in qualche modo imparentato con il dio Pan, Tarzan è decisamente apollineo. È certo che Burroughs fu lettore appassionato di Omero, Ovidio, Tito Livio, Plutarco, Virgilio, letti anche in latino e in greco. E gli animali parlanti di Kipling hanno una radice in quelli delle favole di Archiloco, Esopo e Fedro. Il carattere mitologico è rimarcato sia in Mowgli che in Tarzan, entrambi presentati, almeno all’apparenza, come dei o semidei. Nel Secondo Libro della Giungla, l’ormai diciassettenne Mowgli appare così alla sua vera madre Messua:
In piedi, alla luce rossa del lume a petrolio, forte, alto e bello, i lunghi capelli neri che ricadevano sulle spalle, il coltello appeso al collo e la testa inghirlandata di gelsomini bianchi, Mowgli avrebbe potuto essere confuso facilmente con una divinità di una leggenda della Giungla.
Tarzan viene definito «god-like» già nel primo romanzo e ancor più dettagliatamente nei successivi, dove lo si descrive fisicamente simile a Mercurio e Apollo (Tarzan and the Golden Lion), «più che umano, semidivino» (Tarzan and the City of Gold), «daimon» (Tarzan the Magnificent). I riferimenti alla mitologia classica saranno rimarcati anche in molti supereroi dei fumetti. Non si tratta solo di un riferimento ai miti, ma di un rinnovato ideale estetico. Simili fisici maschili erano assai rari all’epoca: gli uomini robusti, tra la fine ottocento e i primi del novecento, erano assai meno slanciati, avevano la vita larga, e spesso il ventre prominente. Il fisico snello, agile, dalla muscolarità più armoniosa che possente, cominciò a diffondersi nel circo, con i cosiddetti “volanti”, cioè i trapezisti, popolarissimi proprio negli anni del grande successo di Tarzan. Seguono e si affiancano alla figura del domatore. Il Tarzan che vola appendendosi alle liane e quello che comanda agli animali devono molto alla cultura del circo.
Quale rapporto ha la serie di Burroughs con i memoriali degli esploratori? Non si sa bene quante e quali siano state le letture di Burroughs in questo ambito: la principale è assai probabilmente costituita dalle opere del giornalista esploratore Henry Morton Stanley, ma Burroughs non si è certo limitato a queste. Cercherò di dedurne altre dall’esame testuale, tuttavia un’indicazione di ordine generale si può rinvenire fin dall’incipit di Tarzan of the Apes, dove Burroughs scrive:
Ho udito questa storia da uno che non aveva alcun interesse materiale a raccontarla, a me o ad altri. Al principio, potrei asserire d’essere rimasto sedotto all’ascolto di una storia vecchio stampo, e nei giorni successivi d’aver provato una scettica incredulità per la plausibilità del bizzarro racconto. Quando il mio ospite conviviale capì d’avermi detto tanto e che ero incline al dubbio, in un empito d’orgoglio, punto sul vivo, si assunse l’onere di chiarire le origini remote, e rinvenne una documentazione probante sotto forma di un polveroso manoscritto e di scarni rapporti ufficiali del British Colonial Office, in modo da supportare molti dei momenti salienti della sua straordinaria narrazione. Non dico che la storia sia vera, perché non ho assistito personalmente agli eventi narrati, ma il fatto che nel riferirvela io abbia adottato nomi fittizi per i personaggi principali evidenzia a sufficienza la mia sincera convinzione che possa essere vera. Le pagine ingiallite e ammuffite del diario di un uomo morto da tempo e i registri dell’Ufficio Coloniale combaciano perfettamente con la narrazione del mio ospite conviviale, quindi vi riporto la storia così come l’ho accuratamente ricostruita da queste diverse fonti. Se non la doveste trovare credibile potreste comunque convenire con me che è unica, straordinaria e avvincente.
Dunque il lettore è avvisato: sta per leggere una storia di terza mano, non si sa se vera o se falsa. Non si tratta dell’abituale ricorso all’espediente del manoscritto ritrovato (nel caso, il diario di lord Greystoke, il padre di Tarzan) ma a qualcosa di più: a un racconto passato da narratore a narratore, nel quale è impossibile distinguere tra realtà documentata e invenzione. Non si può asserire che la storia sia vera, ma neppure si può essere certi che sia falsa. Ora: i memoriali degli esploratori erano in effetti accolti così sia dalle autorità scientifiche deputate a discernere il vero dal falso, sia dalla stampa e dall’opinione pubblica, ondeggianti tra credulità e scetticismo, ma sempre all’eccesso. Uno dei casi più clamorosi era stato quello del dibattito suscitato in epoca vittoriana dai libri autobiografici e dai reperti esibiti dall’esploratore Paul Du Chaillu (circa 1831– 1903) e in particolare dalla sua asserita scoperta, da molti esperti messa in dubbio, dei gorilla di montagna in Congo. Du Chaillu venne giudicato poco credibile perché i suoi libri erano pieni di avventure mirabolanti e, si scoprì, lui stesso aveva mentito sulle sue origini e (vero scandalo per l’epoca) era persino un meticcio (dunque non credibile per definizione o meglio per pregiudizio). Resta il fatto che tutti i memoriali degli esploratori diventavano rapidamente dei bestseller e attraevano i lettori proprio per l’indistricabile miscela di vero e falso. Nel periodo di Tarzan, d’altra parte, nella narrativa popolare il falso aveva ormai largamente spodestato il vero, e si dava per scontato che un racconto d’avventura fosse nutrito di immaginazione e nutrisse quella dei lettori a prescindere da qualsiasi credibilità, semplicemente in nome di una giocosa complicità tra narratore e lettori. Lo stesso Kipling, nella prefazione di un’edizione successiva del Libro della Giungla si era ben guardato dal presentare la storia di Mowgli come sicuramente autentica, scrivendo ironicamente:
Le avventure di Mowgli sono state raccolte in diverse occasioni e in posti diversi da una moltitudine di informatori, la maggior parte dei quali desidera conservare l’anonimato più rigoroso. Tuttavia, ormai a distanza di tempo, il Curatore ritiene di potersi prendere la libertà di ringraziare un signore indù di vecchia scorza, un onorato residente delle alture più elevate di Jakko, per la sua stima persuasiva, seppure un po’ caustica, delle caratteristiche nazionali della propria casta: i Presbiti.
Questo anziano e poco affidabile narratore orale somiglia assai all’ospite conviviale di Burroughs.
The Lost World (1912) è una fonte indubbia per Tarzan of the Apes. Nel romanzo di Conan Doyle, il gruppo di esploratori amazzonici guidato dal professor Challenger viene catturato da una tribù di uomini scimmia il cui capo è così descritto: «the king of the ape-men was really a creature of great distinction – a most remarkable, handsome and intelligent personality». A questa descrizione del professore, il giornalista Edward Malone (l’io narrante) ribatte sottolineando: «A most remarkable creature». Most remarkable è l’espressione caratteristica del professor Porter di Tarzan of the Apes, versione parodistica di Challenger.
Altre fonti? Una delle prime letture di Burroughs fu il Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, regalatogli dal padre. Robinson incarna l’uomo civile che in un contesto selvaggio sopravvive grazie alla propria industriosità. Più che su Tarzan (che pure primeggia tra le scimmie grazie al possesso di un coltello), Robinson pare incidere su lord Greystoke, cioè John Clayton, padre di Tarzan, membro del British Colonial Office, che con sua moglie Alice sopravvive a un ammutinamento, si ritrova abbandonato nella giungla e costruisce da solo la propria baracca di tronchi. Provvede anche a fabbricarsi coperte e indumenti con la pelle di leoni e di leopardi. Difficile pensare che un aristocratico si trovi così a suo agio in questi lavori servili, è indubbiamente l’archetipo di Crusoe (anch’egli scampato a numerose peripezie navali) a renderlo credibile. Dal romanzo di Defoe era germinato un genere: le cosiddette Robinsonades, letture generalmente studiate per l’infanzia. Dal naufragio solitario si era passati a quello di interi gruppi familiari come nel romanzo di Johann Rudolf Wyss, The Swiss Family Robinson (1812-27), e in quello del capitano Frederick Marryat, Masterman Ready; or, The Wreck of the Pacific (1841). Queste storie evolvono ergendo a protagonisti assoluti i bambini, come nel romanzo di Robert Michael Ballantyne, The Coral Island (1858) dove tre ragazzini, Ralph, Jack e Peterkin, naufragano su un’isola deserta del Pacifico. Nel corso del secolo il tema si lega strettamente al colonialismo: i bambini vengono presentati come nuovi colonizzatori che, con il loro spirito d’avventura e la loro industriosità, si formano a contatto con la natura e mostrano di saperla governare attraverso la cooperazione, la solidarietà reciproca e l’unità del gruppo. E come accade nella narrativa per ragazzi, tutto va bene. Lo stereotipo sarà completamente stravolto da William Golding nel suo provocatorio romanzo Lord of the Flies (1954): qui i bambini precipitati dopo un incidente aereo su un’isola deserta, vedono subentrare al loro iniziale robinsonismo, una ferinità selvaggia che li spinge gli uni contro gli altri. Il tema della ferinità è già ben presente in Kipling, e riecheggia in Tarzan, ancora avvolto in un’aura fiabesca, e nel rimpianto dell’infanzia. Le avventure di Mowgli terminano a diciassette anni, quando torna tra gli umani, e avverte, in primavera, i primi turbamenti sessuali. Tarzan invece è un adulto, Burroughs, nel primo romanzo, sbriga in brevi e veloci passaggi la fase della sua infanzia e della sua formazione tra le scimmie; vi tornerà con maggiore scrupolo nei Tales of Tarzan, come vedremo. In Tarzan of the Apes il suo trasporto per Jane viene posto al centro della vicenda. Eppure Tarzan resta un adulto-bambino (un Peter Pan) che non riesce davvero ad abbandonare quella giungla che è stata il suo Eden giocoso. Neppure la guerra (e nel lungo tragitto narrativo di Tarzan le guerre mondiali sono state due) indebolisce questo richiamo: anche i “cattivi” che Tarzan si trova ad affrontare (tedeschi, giapponesi, russi e arabi) vengono risucchiati in un contesto fantastico e avventuroso, tra mondi perduti, tesori nascosti, donne affascinanti, animali docili e belve indomabili, inseguimenti, scontri, trappole, astuzie. Gore Vidal ha ben rimarcato questo aspetto. L’interrogativo che si pone Vidal non riguarda l’aspetto specificamente infantile (da sempre «i ragazzini giocano a essere potenti»), ma gli adulti: perché si continua per tutta la vita a vagheggiare l’immagine ideale di uomo forte, dell’«attraente semidio che salva le donzelle dai mostri»? È soltanto un sogno velleitario da oscuri impiegati? O è la persistenza di un’identità maschile sbilanciata e attratta non dal sesso, ma da un potere non espresso nella carriera, bensì nella forza fisica e insieme nell’autoconvinzione di possedere un animo nobile?
Tra gli autori preferiti di Burroughs troviamo Owen Wister, che aveva esordito con una parodia di The Swiss Family Robinson, intitolata The New Swiss Family Robinson (1882) e raggiunto il successo con The Virginian (1902) romanzo che fissa lo stereotipo del cowboy abile con il lazo come con la pistola, oltre che al tavolo da gioco. Alla vicenda avventurosa, piena di azione, violenza, vendetta, e amicizia virile, se ne mescola una sentimentale, finché il protagonista diventa un uomo importante e rispettato nel suo territorio e conduce una felice esistenza familiare. Wister ispirò uno dei più prolifici scrittori di western, Zane Grey, anch’egli amato da Burroughs. Un romanzo piuttosto insolito, nella vasta produzione di Zane Grey, è Ken Ward in the Jungle (1912). La giungla, in questo caso, è una foresta tropicale in Messico che per Ken Ward, nato in Arizona, è un banco di prova: se la sua spedizione dovesse avere successo, sarebbe premiato con un finanziamento per un’esplorazione africana. Interessante questa connessione tra l’avventura western e quella africana, quasi che la seconda sia il coronamento di un percorso, la prova finale e suprema. La traccia western più vistosa, in Tarzan, consiste nel fatto che la prima arma da lui stesso foggiata, è il lazo, strumento piuttosto insolito in Africa. Il biografo di Burroughs Erling Holtsmark aggiunge un altro elemento: Burroughs aveva partecipato alle guerre apache degli anni 90 dell’Ottocento, e li aveva ammirati secondo stereotipo: grande capacità di sopravvivenza e di resistenza, profonda conoscenza degli animali e della natura, ricorso a notevoli astuzie guerresche. Qui Holtsmark vede l’origine del fascino del mito del selvaggio su Burroughs. Più in generale, all’esaltazione della wild life, contribuisce sicuramente The Call of the Wild (1903) di Jack London, romanzo che Burroughs apprezzò molto.
Molti degli elementi che costituiscono la figura di Tarzan sono sicuramente datati. Ciò ne rende ancor più misterioso il successo perdurante a distanza di più di centodieci anni dalla sua creazione. Dino Buzzati scrisse nel 1971:
Le droghe di Burroughs, in tanti anni, non hanno preso la muffa. Il suo ritmo narrativo, il taglio del racconto, le sorprese, i colpi di scena, il dosaggio delle tensioni drammatiche, l’alternativa delle gioie e dei dolori, delle speranze e delle delusioni, ancor oggi possono servire di esempio agli specialisti di avventure.
Eppure un certo pregiudizio critico permane. Nella postfazione di Giuseppe Lippi a John Carter si legge:
Due dei più esperti critici italiani del settore, Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, hanno scritto a proposito di Burroughs: ‘Tutta questa massa di letteratura, (…) è quasi completamente priva di valore artistico... I suoi libri sono ottime opere per ragazzi, al livello, per fare un esempio italiano, del miglior Salgari’.
Davvero? Sul piano strettamente stilistico si tratta indubbiamente di una lettura facile (e assai più di quella salgariana), ma i temi considerati nei romanzi sono in realtà complessi. Del tutto falso che si tratti di letteratura per ragazzi, altrimenti non si spiegherebbe perché sia stata esposta in molti paesi a restrizioni, censure, persino requisizioni, in quanto considerata oltre che diseducativa, oltraggiosa. Le polemiche, peraltro, continuano, essendo la serie oggi ancor meno di ieri adeguabile a statuti politically correct. Sorge dunque il sospetto che la si dia troppo per scontata e che si tenda a giudicarla assai superficialmente.
Il personaggio
Scrive Dino Buzzati a proposito del personaggio di Tarzan:
Fatalmente candido e sprovveduto per non aver frequentato le scuole, questo eroe è però intelligentissimo, impara da solo a leggere e a scrivere in inglese per mezzo di un abecedario trovato nella capanna di suo padre, imparerà il francese in poche settimane grazie agli insegnamenti dell’amico D’Arnot, e riuscirà persino a farsi la barba con un coltello da caccia (il che veramente tocca il colmo). Portato nel cosiddetto mondo civile, diventerà in men che non si dica un perfetto gentiluomo, propenso sì, per le vecchie abitudini, a farsi giustizia da sé, ma perfetto nel destreggiarsi a tavola con coltello e forchetta. Riuscirà tuttavia a conservare la freschezza dell’animo, nonché la quasi incredibile prestanza fisica, che ne fa una specie di superuomo.
In altri termini, Tarzan è al principio proprio come un lettore bambino o illetterato che impara a leggere, e poi gradatamente si accultura, mantenendo però candore e purezza d’animo. La sua forza, d’altro canto, e le capacità acquisite attraverso un’esperienza non comune, ne fanno un super-eroe. Il modello funziona in duplice modo sul lettore, che si identifica in lui perché egli stesso in qualche modo parte da zero, e perché l’eccezionalità del personaggio viene a configurarsi ai suoi occhi come una legittima aspirazione.
Secondo Umberto Eco, Tarzan è una delle incarnazioni della figura del Superuomo di massa. Nell’opera con questo titolo, il saggio finale è proprio su Tarzan. Eco ne traccia una «scheda mitologica», individuando una serie di «richiami ideologici sovrapposti»: 1) il tema roussoiano del ritorno alla natura, ma con aggiunta qualche robinsoniana «chance tecnologica» («Tarzan con il coltello è già un brandello di civiltà»); 2) la missione civilizzatrice bianca, che Tarzan conduce «a modo suo», cioè «tiene buone le creature selvagge ma non comunica loro la sua scienza se non in modo rapsodico e nei momenti del bisogno»; 3) una componente omosessuale (qui Eco cita Lacassin ). «Tarzan ha famiglia fissa solo nei tardi prodotti cinematografici, ma nei romanzi e nei fumetti è affetto da un tipico fenomeno di ‘parsifalismo’. Le ragazze, le regine vestite come in Flash Gordon, che lui incontra nei mondi perduti, nelle città nascoste, nei regni del passato, lo circuiscono, lo coccolano; ma lui irremovibile».
Fermiamoci un attimo perché qui Eco e Lacassin si sbagliano clamorosamente. Anzitutto non è vero che «Tarzan non va a letto con le scimmie», anzi il suo primo amore (come si racconta in uno dei Tales of Tarzan) è una scimmia; inoltre Tarzan si sposa con Jane, le resta fedele e ne ha un figlio. Dunque se è vero che la popolarità dei culturisti deve molto al pubblico omosessuale, ciò non significa affatto che Tarzan mostri una natura o un orientamento omosessuale, né che Burroughs vi alluda nei suoi romanzi. E la presenza al suo fianco del “Boy”, cioè del ragazzino aiutante, in molti film della serie, non indica affatto una «componente omosessuale», ma è un mero risultato del successo della doppia figura di Tarzan bambino e Tarzan adulto nel primo film della serie. Il “Boy” è un doppio di Tarzan, sia in quanto Tarzan bambino, sia come Jack, cioè il Tarzan figlio, erede e partecipe della stessa natura del padre. Per giunta qui Eco e Lacassin fanno una confusione dannata tra omosessualità e pedofilia, in modo piuttosto corrivo. Quanto all’esitazione dell’eroe di fronte alla femmina seduttrice, essa risale a Odisseo (che quando cede ai sensi, paga severamente), a Sansone e Dalila, a Cesare, Antonio e Cleopatra, a moltissime narrazioni dove gli eroi, non necessariamente omosessuali o bisessuali, si trovano a cospetto di donne di potere. È dunque più una figurazione del confronto tra il Maschio Alpha e l’Eterno Femminino, tra patriarcato e matriarcato, tra il guerriero e l’amazzone, che la rivelazione di un’omosessualità occulta. Se si pensa davvero che un uomo che rifiuta una donna lo faccia per malcelata omosessualità, evidentemente si pensa che il maschio “giusto” debba comunque accoppiarsi sessualmente con qualsiasi femmina gli si presenti di fronte, tanto più se attraente, il che francamente appare il portato di una mentalità virilista piuttosto arretrata.
Dopo questi assunti, Eco passa a considerare le derive cinematografiche di Tarzan che a suo dire «uccidono quel tanto di rozza poesia che c’era nei romanzi di Burroughs e nelle strisce di Hogarth e Rubimoor [sic]. Tarzan diventa un bullo da piscina». Tale presunta deriva «turistica», «vacanziera», «imborghesita» di Tarzan, lascia perplessi: viaggiare, fare le vacanze è cosa da borghesi nella società di massa? Quanto al culto californiano per la piscina e per gli esercizi ginnici, non nasce certo da Tarzan. I Tarzan del cinema vengono tutti scelti tra atleti, perché meglio si adattano alla fisicità del personaggio, ma molti di loro erano dei campioni, anche olimpici. Nemmeno si può dire che il culto californiano e hollywoodiano per la piscina e per gli esercizi ginnici, abbia per origine univoca Tarzan. L’infatuazione di massa per l’atletismo maschile include Tarzan, ma non origina affatto da lui, casomai, come detto, dallo spettacolo circense dei domatori seminudi e dei trapezisti volanti.
Modulo, Stile e caratteri femminili
Come nota Holtsmark, i romanzi di Tarzan seguono uno schema fisso: la pace della giungla viene disturbata dall’arrivo degli europei in cerca di civiltà scomparse, tesori nascosti (tipo grotta di Aladino o quelli dei bauli sepolti dai pirati, più che le risorse naturali), traffici d’avorio o di schiavi. Una donna bianca fa parte della spedizione, a volte per suo consenso, altre volte coinvolta suo malgrado. Diviene preda sessuale e viene rapita da parte di pervertiti europei o arabi, oppure da mostruosi scimmioni. Tarzan la salva. Il modulo è molto semplice e ritualmente replicato, ma gli viene però dato uno sviluppo, disponendolo, di romanzo in romanzo, in un ordine cronologico approssimativo.
I romanzi di Tarzan, almeno fino a un certo punto, si svolgono in un modo feuilletonesco, ma senza accumulo di misteri. La narrazione è sempre chiara e ordinata, dal principio alla fine (mai definitiva), evitando flash back e salti temporali. Tra capitolo e capitolo, a volte, ma non sempre, si fa uso di ganci narrativi che lasciano l’azione sospesa sul più bello, rinviando lo scioglimento al capitolo successivo, per tener desta l’attenzione del lettore sollecitandone le attese.
Questo modo semplice, efficace e facile alla lettura, di condurre la narrazione, può giustificare il giudizio negativo di molta critica sul Burroughs narratore. Giusto rilevare che si tratti di una caratteristica che ritroviamo in Salgari. Ma lo stile di Burroughs è assai più lineare e “pulito” di quello salgariano (spesso barocco e convulso), o di quello di Wister (sovente arzigogolato e di certo assai datato e meno facile alla lettura). Il racconto di Burroughs è fin dal principio predisposto al cinema e al fumetto: tutto è chiaro ed esplicito, personaggi e scene hanno un forte impatto visivo, le azioni sono continue e rapide, ogni eccesso di psicologismo è bandito.
I ritratti femminili dipendono in parte dall’ambiguo Eterno Femminino caratteristico di Haggard, ma con una rozzezza semplificatrice piuttosto sconcertante per il lettore odierno e assai più consueta per il lettore dell’epoca. Compare qualche donna cattiva, ma il modulo in genere prevede una donna coraggiosa, però destinata ad essere protetta, e un maschio di nobili sentimenti destinato a proteggerla. L’erotismo viene alluso, ma tenuto sullo sfondo, anche se non manca qualche scena insolitamente bollente per una narrativa avventurosa rivolta anche ai ragazzini. L’aspetto sessuale risulta assai più evidente in cinema: la stessa messa in scena dell’uomo nudo e della donna seducente (e nuda integrale in una celebre scena di nuoto in ripresa subacquea) rende preminente l’erotismo sul romance.
I cattivi
Nella biblioteca di Tarzana ci sono I Misteri di Parigi (1842-43) di Eugène Sue, ma il feuilleton preferito di Burroughs fu The Mysteries of London (1844-45) di George W.M. Reynolds, e soprattutto il suo successivo romanzo a puntate, di lunghezza anche più spropositata, The Mysteries of the Court of London (1848-55). In questi romanzi c’è un erotismo torbido che Burroughs tende ad evitare, più interessante è confrontare i villains di Reynolds con quelli della serie di Tarzan. Nel feuilleton classico, i cattivi sono di due tipi: i cattivi per natura, incarnazioni del male, spesso caratterizzati da tratti lombrosiani, e i cattivi redimibili che si pentono in fin di vita e che a volte possono addirittura collaborare con i buoni. Reynolds, ancor più marcatamente di Sue, introduce un’altra categoria: i malvagi resi tali dalla società. Il cattivissimo “Resurrection Man” Anthony Tidkins dei Misteri di Londra, oltre che trafugatore di cadaveri, è responsabile di estorsioni, furti e ricettazione, rapine a mano armata, omicidi in serie, ed è diventato potente e ricchissimo grazie alle sue attività criminali, eppure Reynolds lo dipinge come una vittima della società, ridotto al crimine dalla mancanza di altre opportunità di arricchimento, e oggetto di numerosi abusi fin da ragazzo. Così si esprime l’eroe negativo:
Non avevo soldi – nessuna coscienza – nessuna paura – nessuna speranza – nessun amore – nessuna amicizia – nessuna simpatia – nessun sentimento gentile d’alcun tipo. La mia anima si era votata alle tenebre dell’Inferno!
Reynolds scrive altresì (e come intervento d’autore):
Se un ricco denuncia un povero alla polizia, a una giuria, o a un giudice, puoi star certo che quel povero miserabile viene condannato sbrigativamente!
Reynolds è un socialista cartista, scelta da cui Burroughs è ben lontano. Burroughs non considera affatto le radici sociali del crimine. In compenso è anche abbastanza distante della xenofobia di marca vittoriana. Per i britannici dell’epoca imperiale, i cattivi che infestano Londra sono in genere stranieri. Non si risparmia nessuno: turchi, slavi, cinesi, russi, indiani, portoghesi e spagnoli, italiani, africani e popolazioni native in generale, senza escludere gli irlandesi, e, ovviamente, gli ebrei. Tali stranieri vengono classificati in scala razziale. Al gradino più basso l’uomo di Neanderthal (scoperto nel 1856), al più alto «the educated world of England and America», per usare le parole dell’antropologo Edward Burnett Tylor, nel suo studio Primitive Culture (1871). Nella classifica tribale Tylor parte dagli aborigeni australiani, e rinviene (ai confini della civilizzazione), i cinesi e gli italiani. Il pregiudizio anti-italiano era diffuso, in Inghilterra. Sul giornale umoristico Punch vennero pubblicate vignette satiriche che associavano i suonatori ambulanti di organetto italiani alle loro scimmiette addestrate.
Burroughs assegna indubbiamente il primato civile agli inglesi e agli americani, aggiungendo loro i francesi. Ma è ben lontano, da americano consapevole dell’importanza del cosmopolitismo, dal classificare i popoli in base a una rigida scala evolutiva. Anzitutto la sua costante ironia sui costumi dei “civilizzati” lo preserva da eccessi suprematisti: sugli stessi inglesi sa essere in più occasioni caustico, in Tarzan and the Lion Man mette in satira i «Britons» rappresentandoli come grotteschi scimmioni legati a una tradizione monarchica vetusta, e sovente mette in scena cattivi anglosassoni. Gli arabi sono il più delle volte personaggi disprezzabili, in quanto trafficanti d’avorio, di schiavi e di donne, ma i cavalieri del deserto vengono giudicati, sulla scia di Lawrence d’Arabia, come mirabili esempi di nobiltà guerriera. Erb manifesta un certo disprezzo per gli ispanici (mai un personaggio positivo), indiani, cinesi e giapponesi (indubbiamente da lui considerati di razza inferiore), non considera affatto gli europei del nord come i detentori della purezza bianca, anzi dipinge belgi, olandesi e svedesi come spietati colonialisti e criminali. È ambivalente sui russi e sui tedeschi (ce ne sono di buoni e di cattivi), rispetta gli italiani e manifesta una spiccata simpatia per gli italo-americani (persino i gangster). In generale il discrimine è più politico che razziale. Non c’è neppure un ebreo cattivo, nella serie di Tarzan, tantomeno rapace. Un certo pregiudizio si può forse rilevare nel fatto che non li nomini neppure, ma il suo obiettivo polemico sono i cristiani, in particolare le sette fondamentaliste. Quanto alla rapacità, Erb la considera universale. Gli “stranieri” di Tarzan appartengono a nazioni nemiche, e sono spesso coinvolti in vicende spionistiche. All’epoca la spy story non era ancora diventata un genere codificato. Dei precedenti erano stati: il romanzo di Fenimore Cooper The Spy (1821) dove il protagonista Harvey Birch è un agente segreto americano dell’epoca della rivoluzione; Kim (1900) di Rudyard Kipling, ragazzino orfano di origine irlandese cresciuto in India che collabora con i servizi segreti britannici; The Riddle of the Sands (1903) di Robert Erskine Childers, protagonista un ufficiale britannico del Foreign Office che indaga su un complotto tedesco; The Secret Agent (1907) di Joseph Conrad, che ha al centro la figura di Adolf Verloc, spia presumibilmente russa. Da quest’ultimo romanzo, forse, la suggestione per il personaggio della spia russa Nikolas Rokoff che compare per la prima volta in The Return of Tarzan. Il tema spionistico si sviluppa nel corso della Grande Guerra, cioè nel contesto dello scontro tra nazioni. Nella sua autobiografia, Agatha Christie a proposito delle storie di spionaggio, scrive…
… si basano sempre su uno schema simile, in cui l’unico elemento mutevole è la figura del Nemico. C’è una banda internazionale alla Moriarty, costituita da tedeschi, gli «unni» della prima guerra mondiale, poi da comunisti e infine dai fascisti. Dai russi si passa ai cinesi, dai cinesi si torna alla banda internazionale, ma comunque si travesta il Criminale che aspira alla supremazia mondiale resta una presenza immancabile.
Ciò rappresenta piuttosto bene i mutevoli percorsi di Burroughs nella scelta dei cattivi per i suoi romanzi più spionistici. Ma se esistono i cattivi, non esiste il Male. In Burroughs la morale non ha fondamenta religiose, e neppure sociali, è un dettato interiore che in alcuni individui (dal sangue e dall’animo nobili) si desta istintivamente. Tarzan la vive al pari dei suoi impulsi ferini. L’aspetto più controverso, oggi senza dubbio inaccettabile, è che la sua pietas viene esercitata risparmiando i bianchi, per loro vale il «Non Uccidere», mentre i neri si possono tranquillamente linciare, e Tarzan lo fa. Ma va anche precisato che Tarzan si batte contro lo schiavismo, e che si fida più dei suoi amici Waziri che dei bianchi. Burroughs è del tutto alieno a derive segregazioniste.
Lo sfondo filosofico e politico
Un certo darwinismo sociale è ben presente e si esprime in una classificazione gerarchica tra animali, uomini neri e uomini bianchi, in direzione del suprematismo bianco. Burroughs pare darlo per scontato in ossequio a una mentalità diffusa. Sul piano ideologico, è un altro l’elemento che affiora, e in modo piuttosto sorprendente rispetto al dettato darwinista. Il prodotto finale della catena evolutiva non è l’uomo civilizzato, bensì l’uomo civilizzato che ritrova il suo rapporto ancestrale con la natura, con la propria istintualità, anche ferina, e per il quale uccidere non è immorale. La morale interiore e/o innata sta piuttosto nella scelta dei limiti, nel saper discernere tra giusto e ingiusto, tra comportamento nobile e ignobile. Ci sono indubbiamente echi roussoiani nell’idea del ritorno alla natura e nel mito del Buon Selvaggio. Ma va anche aggiunto che tale filosofia, in Rousseau, si accompagna ad altri elementi: un certo pessimismo della ragione che vede invece prevalere in tendenza la civiltà dell’artificio, dell’apparenza, della svalorizzazione del corpo; l’evocazione di una missione civilizzatrice dell’amore rispetto alla ferinità; la consapevolezza che una ritrovata prossimità con la natura conduce l’individuo all’isolamento rispetto al corpo sociale. In Mowgli, quest’ultimo elemento è ben presente: il suo primo germe di consapevolezza sta nel rendersi conto d’essere unico e solo, diverso, se non proprio estraneo, sia rispetto al mondo della giungla sia al consesso umano. Una volta abbandonato il primo (con l’età adulta) non gli sarà più possibile tornarvi. Mowgli avrà a che fare con il mondo civile, e non si sa, non viene svelato al lettore, come se la caverà. A ciò si aggiunge un tema squisitamente politico e relativo al colonialismo. Mowgli è frutto dell’Impero Coloniale Britannico. Evoca certo la figura di Romolo, fondatore di un Impero, ma con ciò ci interroga: il figlio delle colonie è un nuovo modello di Uomo Occidentale creatore di un nuovo Impero? Kipling ha ovviamente presente la propria condizione di inglese nato a Bombay. È un sostenitore e un cantore dell’Imperialismo, ma lo è anche e soprattutto dal punto di vista delle colonie. È un contemporaneo di Lawrence d’Arabia, incarnazione del britannico che combatte per l’Impero, ma appoggiando istanze autonomiste e incorporando la cultura dei paesi in cui opera. Kipling però guarda con particolare ammirazione a un’altra figura, quella di Cecil Rhodes (1853-1902), magnate inglese, primo ministro della Colonia di Città del Capo e poi fondatore della Rhodesia. Kipling si reca in Sudafrica una prima volta nel 1891, poi più a lungo nel 1898, quattro anni dopo The Jungle Book, e in questa circostanza conosce e frequenta Rhodes. Nella sua tenuta i bambini giocano con animali in libertà. Due leoni, Alice e Jumbo, danno la sveglia mattutina con i loro ruggiti. Un leoncino è tenuto in casa per la gioia dei piccoli. In un apposito recinto, le zebre e gli emù si sfidano incruentemente. Kipling vede in Rhodes un modello di governatore coloniale, rozzo nel modo di esprimersi, e inappellabile come un Imperatore Romano, ma ben integrato all’ambiente naturale e in armonia con un mondo animale miracolosamente addomesticato e incivilito.
Burroughs non è mai stato in Africa. La sua giungla africana è un regno fantastico, ricostruito per approssimazione e secondo stereotipi. Non è un ardente imperialista come Kipling, ma neppure un anti-imperialista. Apprezzò i libri dello storico britannico Thomas Babington Macaulay (1800–1859) che distingueva nettamente tra civiltà “barbare” e nazioni civilizzate, sostenendo la supremazia della lingua inglese e la sua diffusione nelle colonie, ma che fu tuttavia un attivo anti-schiavista. L’anti-schiavismo è un tratto essenziale nei romanzi di Tarzan, che combatte anche contro l’avidità predatoria dei colonizzatori trafficanti d’avorio e d’altre risorse. Tarzan è il Signore della foresta, ma è anche il suo difensore contro chi non la rispetta. Tale ruolo gli consente di andare e venire: quando abbandona la giungla si adatta perfettamente alla società europea e si trova perfettamente a suo agio sia a Parigi che a Londra, ma il suo non è un addio definitivo come il passaggio tra l’infanzia e la vita adulta. Se vuole (e lo vuole) può tornare in Africa, perché qui ha una missione da svolgere, non come rappresentante dell’Impero, ma come custode della pace, cioè dell’intangibilità, della giungla. Questa non è una semplice sfumatura. L’identità di Tarzan sta nell’essere un eroe della giungla e un suo paladino. Tarzan non soffre della sua diversità, ne fa un punto di forza. Mai si sente, né in Africa, né in Europa, un emarginato. Questo fa davvero di lui un Super-eroe: l’essere al di sopra di ogni interesse materiale, economico e politico. E che la sua Africa sia fantastica, ci dice che Tarzan è anche e soprattutto il difensore del libero territorio dell’immaginazione. Detto questo, c’è una vistosa contraddizione in Burroughs: Tarzan/Greystoke ha nella giungla anche una proprietà terriera e una Banca, costituita del tesoro di Opar, una Città Perduta nei cui sotterranei giacciono, non sfruttati, lingotti d’oro a cataste ed enormi scrigni di preziosi. Quando gli occorre può far rifornimento. Non è anche questo, a suo modo, un pillage? Quel tesoro per Tarzan/Greystoke è la sua riserva. L’ha scoperta e dunque gli appartiene.
La serie
Esaminando i romanzi nell’ordine di pubblicazione, verificheremo come questi molteplici aspetti si combinino, e quali varianti applichi Erb. Il percorso non è affatto lineare. Burroughs smonta il luogo comune proprio dei codici seriali dei nostri tempi, che presumono corretto progettare e definire un format per poi replicarlo finché funziona. Il procedimento creativo di Erb è segnato da esperimenti, passi avanti e passi indietro, idee fisse e twist improvvisi. Il suo modello viene modificato in corso d’opera, dando luogo a due linee di sviluppo divergenti: da un lato un racconto d’avventura disposto in un ordine cronologico approssimativo, dall’altro avventure in una sorta di meta-tempo, modello che finisce per prevalere.
Sotto il profilo dello sviluppo del personaggio, si possono distinguere tre fasi: il Tarzan delle Scimmie; il Tarzan esploratore di mondi nascosti nella giungla; il Tarzan amato-odiato dall’autore, a volte troppo poco presente nelle storie, altre volte stancamente ripetitivo o all’opposto troppo lontano dal modello originale, troppe volte sdoppiato, moltiplicato attraverso i suoi sosia. Questo è il Tarzan dell’ultimo periodo, prigioniero a vita della serialità, dei suoi multipli cinematografici e fumettistici, del proprio stesso mito e di ciò che si dice di lui.